The Eighth Precept: Not Being Stingy, dal sito Zen Peacemakers
Ci sono molti modi di studiare i precetti. Quello che mi piacerebbe fare qui è usare l'ottavo precetto per illustrare un modo di praticare concretamente coi precetti. Per come la vedo, ci sono due parti per questa pratica. Una è usare la propria immaginazione per estendere lo stretto significato letterale del precetto fino a coprire più di quello che siamo soliti pensare. In questo modo il precetto può diventare vivo per ciascuno di noi, nella nostra vita individuale, esattamente nel modo che gli è necessario. Quando ho identificato il miglior modo per me di comprendere il precetto, posso portarlo nella mia vita e lavorarci sopra. Questa è la parte complicata. Abbiamo una tendenza a trattare i precetti come nutrimento per il super-io. Non solo questo non è ciò che sono i precetti, ma non è neanche il modo di praticare alcunché, poiché implica rifiutare parti di noi stessi, il che porta a rifiutare gli altri. I precetti non riguardano 'dovrei' o 'non dovrei'. Potremmo, suppongo, tentare di distinguere i precetti come 'guide' di un qualche tipo, opposte ai 'dovrei' e 'non dovrei', ma c'è un modo più profondo di praticare con essi, perfino per un principiante. Quando colgo il modo per me migliore di comprendere il precetto in questione, posso giungere a conoscere me stessa in relazione a quel precetto. È una pratica di priva di preferenze, giudizi, doveri, idee di fallimento. È una pratica di semplicemente consentire ciò che è. Spiegherò meglio come approfondire questa pratica, ma il risultato dell'andare sempre più nel profondo è che i precetti inziano a manifestarsi naturalmente nella mia vita.
'Avaro' - una strana parola. Penso a Scrooge. Una parola che mi dà una certa sensazione. "Avaro". Normalmente ci pensiamo in termini di possesso e possessività. Non condividere ciò che possiedo. Stare stretti col denaro. E notare la parola 'stretto' che usiamo qui: descrive cosa concretamente si prova a essere avari. Ci sono molti modi di essere avari. Per esempio, una mia amica che amo teneramente, è molto avara con le porzioni che offre quando è la padrona di casa. Notevole. Tutto è molto piccolo. Ecco una versione perfetta di ciò che normalmente intendiamo con 'avaro'. È una poesia di Rumi:
Il derviscio alla porta
Un derviscio bussa a una casa chiedendo un pezzo di pane secco, o ammuffito, non importa.
- Questo non è un forno, disse il proprietario.
- Qualche cartilagine allora?
- Ti sembra forse una macelleria?
- Un po' di farina?
- Senti per caso andare una macina?
- Dell'acqua?
- Non è un pozzo.
Qualunque cosa chiedesse il derviscio, l'uomo faceva una battuta frusta e rifiutava di dargli alcunché.
Alla fine il derviscio corse in casa, sollevò la veste e si acquattò come per defecare.
- Ehi, ehi!
- Calmati, uomo triste. Un luogo abbandonato è un buon punto per liberarsi, e poiché qui non c'è niente di vivo o esigenze di vita, dev'essere fertilizzato.
Il derviscio iniziò il suo elenco di domande e risposte.
- Che tipo di uccello sei?
Non un falcone addestrato per la mano del re
Non un pavone decorato con gli occhi di tutti
Non un pappagallo che parla per zollette di zucchero
Non un usignolo che canta come qualcuno innamorato.
Non un'upupa che porta messaggi a Salomone
O una cicogna che nidifica a strapiombo.
Cosa esattamente sei tu?
Non sei una specie nota.
Contratti e fai battute per tenere ciò che è tuo.
Hai dimenticato l'Uno cui non importa la proprietà
Che non cerca di volgere in profitto ogni scambio umano.
L'Uno, Realtà Ultima. L'Uno senza volto, che non cerca mai di 'trarre profitto' da niente. Dall'altra parte, noi cerchiamo sempre di trarre profitto da ogni scambio umano, come pure da altre cose. Stiamo sempre cercando di ottenere qualcosa - ammirazione, amore, riconoscimento, lode, conferma, perfino il semplice restare in contatto. Pensate a come manipoliamo contrattiamo e negoziamo per trarre profitto da ogni scambio umano. Molte volte è inconscio. Perfino quando diamo, serviamo, amiamo o prestiamo attenzione, stiamo cercando di ottenere qualcosa. A volte solo per riavere parte di ciò che diamo.
Allora di cosa siamo avari in questi casi? Una delle cose di cui siamo avari è il cento per cento, siamo avari con la possibilità di fare qualcosa al cento per cento. Immaginate di amare qualcuno al cento per cento. Immaginate di confermare qualcuno al cento per cento senza preoccuparvi di ottenere in cambio qualcosa, che ne porterebbe via una parte e ne farebbe il settanta per cento, a volte il venti. Siamo avari anche della verità. Avari della verità su cosa sta realmente succedendo in noi, con noi, cosa vogliamo davvero. Ci aggrappiamo, tratteniamo, neghiamo. Giochiamo con le carte strette al petto, che nascondono il cuore.
Cerchiamo di ricavare un profitto anche nella pratica. Cerchiamo sempre di ottenere qualcosa dalla pratica. Cerchiamo di migliorare, di ottenere l'illuminazione, di far vedere che pratichiamo bene. Con cosa sono avara in questo caso? La resa incondizionata all'istante presente. Pensate a come siamo avari in questo caso, a quanto tratteniamo. Nel praticare immaginiamo anche che ciò che 'otteniamo' sarà nostro - il che è, naturalmente, la maggiore delusione in assoluto.
E poi c'è la resa. Oltre a considerarla come merce di scambio - "mi arrenderò al momento presente e otterrò qualcosa in cambio" - immaginiamo sia qualcosa che possiamo fare. Allora, come ci arrendiamo? Come agiamo questo non-agire? Dobbiamo essere presi, rapiti se volete. Possiamo solo preparare le condizioni per essere 'presi'. Presi da cosa? - dall'istante presente, dalla Realtà Ultima, dall'Assoluto, da Dio. E il modo in cui prepariamo quelle condizioni è ciò di cui parlavo l'altra sera. È restare qui ora. È andare verticalmente. È rinunciare a tutte le nostre trattative orizzontali. L'affare. Qualcosa di avaro che facciamo in continuazione. Affari, affari. Farò questo se farai quello. È sempre una specie di do ut des. Condizionale. Pensate alla nozione di amore incondizionato. È interessante che di solito pensiamo come sarebbe bello riceverne.
Siamo avari di qualunque cosa cui siamo aggrappati. Siamo avari di qualunque cosa verso cui non abbiamo desiderio di aprirci. Di qualunque persona verso cui non desideriamo aprirci. Di qualunque cosa che accade in noi verso cui non vogliamo aprirci. Avari quando non partecipiamo pienamente. Ciò che è qui. Ciò che è ora. Immaginate di partecipare pienamente, essere qui senza condizioni, qualunque cosa sia. Una classe, un incontro, una cena, del giardinaggio. Partecipare pienamente. Siamo avari quando stiamo trattenendo qualcosa sulla verità di dove siamo. Siamo avari quando non corriamo rischi. Siamo avari quando non siamo compassionevoli. Siamo avari delle nostre lacrime, di parole gentili, di apertura di cuore, di apertura mentale.
Di cos'altro siamo avari? A cos'altro ci aggrappiamo? Sicurezza. Immagini di sé. Dolore. Sofferenza. Repulsione alla sofferenza. Avere ragione. Verità. Amore. Essere una vittima. Desiderio di riconoscimento. Tempo. Lode. Pensate a come ci aggrappiamo a queste cose. Non le regaliamo. Non le condividiamo. Una delle cose importanti di cui siamo avari è la gratitudine. Ricordate la pratica che abbiamo fatto dicendo "Grazie", notando cosa emerge nel modo di dire "Grazie" e come può essere differente per ciascuno di noi? È stupefacente quanto possiamo essere avari di "grazie". Pensate alla gatha del pasto, che riguarda la gratitudine, e inizia con "Settantadue fatiche ci hanno portato questo pasto. Dovremmo sapere come ci perviene". Siamo incondizionati nel saperlo, nell'esprimere quella gratitudine? O siamo avari? Ce lo ricordiamo, almeno, ogni volta che mangiamo? Credo che Mary Oliver ci stia ricordando questa dimensione incondizionata in questa poesia:
Riso
È cresciuto nel fango nero
È cresciuto sotto le zampe arancioni della tigre
Gli steli più esili delle candele, altrettanto dritti
Le foglie come piume di egretta, ma verdi
I chicchi si addensano in cima, desiderosi di scoppiare.
Oh, sangue della tigre.
Non voglio che ti sieda semplicemente a tavola
Non voglio che tu semplicemente mangi e sii contento.
Voglio che cammini nei campi
Dove l'acqua splende e il riso è sorto
Voglio che tu stia lì, lontano dalla tovaglia candida
Voglio che ti riempia le mani di fango, come una benedizione.
Possiamo essere avari anche nel ricevere gratitudine, nel ricevere lodi. Vi ho raccontato molte volte la storia della mia grande lezione a sedici anni, che richiese tanti anni per andare davvero nel profondo, quando la mia insegnante preferita si complimentò con me lungo la scala. Ricordo esattamente dov'ero. E mi comportai come una sedicenne avara, imbarazzata e compiaciuta, probabilmente desiderosa di aggrapparmici, in ogni caso facendone un pasticcio. Prese il mio braccio con le sue lunghe dita sottili e disse: "Non essere così scortese". E io non lo dimenticherò mai. Era un genere di avarizia. Non ricevere ciò che viene dato come gratitudine, non essere cortese. Questo è essere avari. Molte delle poesie di Mary Oliver riguardano l'essere grati e il ricevere il mondo con cortesia. Questi sono due versi da Hai mai provato a entrare nelle lunghe diramazioni nere:
Credi che questo mondo sia solo un divertimento per te?
Mai entrare in mare e notare come l'acqua si divide con cortesia perfetta per farti entrare.
Che dire dell'avarizia con la nostra vita? Veramente, prima di giungere alle nostra vita, credo valga la pena di tornare a Dogen: "Una sola frase, un solo verso, diecimila forme, cento prati, un solo dharma, una sola realizzazione, tutti Buddha. Tutti maestri. Sin dall'inizio non c'è mai stato l'essere avari". Ciò di cui sta parlando è la Realtà Ultima, l'Assoluto, l'Uno senza volto, l' "Uno", come lo chiama Rumi. Non c'è niente di avaro riguardo l'Uno. Niente. Questo mondo che viene manifestato, e ancora, e ancora, incessantemente - di momento in momento. Non vi è niente di avaro. È un dono. E riceviamo il dono. Viene regalato a noi. Costantemente. Vivo. Vibrante. Amore, alberi, dita, il mare e la sua acqua che si divide quando vi entriamo. Tutto, perfino Auschwitz.
Dal Denkoroku del Maestro Keizan
La luce della mente-luna e i colori del fiore-occhio sono meravigliosi;
Splendendo prima e fiorendo anzitempo, chi può apprezzarli?
*
Torrente senza fonte da una roccia di diecimila piedi
Lava le pietre, disperde le nubi, zampilla in fiotti
Spazza via la neve, fa volare selvaggiamente i fiori
Un tratto di pura seta bianca oltre la polvere.
Guardate il linguaggio: splendendo prima, fiorendo, zampillando. Quel tratto di pura seta bianca oltre la polvere non mostra alcuna avarizia nel manifestarsi. La primavera fiorisce, spazzando via, camminando. Auschwitz, scorie atomiche, vita, morte, le nostre vite - tutto zampilla in fiotti. Un altro verso del Maestro Keizan usa la mia immagine preferita:
Quell'Uno la cui vita è estremamente attiva e intensa
Lo chiamiamo l'Uno che inarca il sopracciglio e ammicca.
Quell'Uno, l'Uno senza volto, inarca il sopracciglio e ammicca. Una splendida immagine di questo mondo manifesto, questo mondo di molteplicità in cui viviamo, che siamo. Niente di avaro qui, o, come dice Dogen, "Sin dall'inizio non c'è mai stato l'essere avari".
Che dire della mia vita? Di me stessa? Che dire del non essere avara della mia vita? Degli ingredienti della mia vita? Di più: non essere avara della mia vita, di me stessa, è esprimere pienamente me stessa in ogni istante. Esprimendomi pienamente, in modo esplosivo. Tutto ciò che sono. E questo non è 'esercitare i miei talenti'. Posso dire: "Voglio esprimermi pienamente". E sto solo sedendo qui, non facendo ciò che potrei realmente fare con la mia vita, i miei doni, i miei talenti. Non è questo che significa "esprimersi pienamente". Quei talenti possono essere espressi quando si è pienamente espressi - e possono non esserlo. Non c'è nessuno che sappia che sono talenti, molto meno i miei talenti. Né lo è la mia vita. Di nuovo, da Hai mai provato a entrare nelle lunghe diramazioni nere, Mary Oliver ha questi due versi:
Ascolta, stai appena respirando un po', la chiami vita?
*
Quanto a lungo continuerai ad ascoltare quei cupi avvertimenti - Attenzione, Prudenza?
Aggiungerei 'avarizia'.
Non essere avari con la propria vita, col proprio sé, con questo prezioso e breve, breve dono che ci è stato dato è spesso associato alla voce, al trovare la propria voce, la propria 'voce personale', diciamo. Credo che il chakra della gola riguardi questo, riguarda la voce, l'essere pienamente espressi. Ecco alcune brevi poesie di Rumi al riguardo:
Fa' che la tua canzone di gola sia chiara
e forte abbastanza
da far cadere un imperatore disteso
supplicante alla porta.
*
Tu che vieni alla nascita
e porti i misteri
il tuono della tua voce
ci rende felici.
Ruggisci leone del cuore
strappami, aprimi.
Nel buddismo abbiamo il ruggito del leone. Mary Oliver in un poema in prosa ne ha una versione. Notate il puntino del mio cuore, il mio cuore è giusto un puntino quando sono avara:
E il puntino del mio cuore, nel mio riparo di carne
e ossa, iniziò a cantare a squarciagola, come il sole
canterebbe se il sole potesse cantare, se la luce
avesse bocca e lingua, se il il cielo avesse una gola.
La voce, il nostro principale esempio di espressione, appare una metafora per la manifestazione dell'Uno, come anche nella nozione che tutto "prega il dharma". Come dice Dogen in un breve verso "Forse non sono la preghiera del dharma anche i suoni del chiassoso mercato?". Nessuna avarizia qui. Tutto prega il dharma - scorie nucleari, farabutti, fiori, erba - e lo fa così pienamente e compiutamente. Ciò che è, non è avaro. Niente viene trattenuto.
E così eccoci, avari in questo e quel modo, desiderosi di non esserlo. Come la gestiamo? La prima cosa è non essere avari nello scoprire chi siamo in relazione all'avarizia. "Dove sono avaro? Riguardo cosa? Con chi?", dobbiamo chiederci. Riusciamo a guardare bene, in modo neutrale, a noi stessi, senza preferenze? Riusciamo a permettere con compassione ciò che è, o chi sono io, nel senso relativo? Riusciamo a esplorare abbastanza profondamente da percepire il trattenere, la stretta, forse persino la paura? Riusciamo a sentirci sicuri abbastanza, non-avari abbastanza da esprimere chi siamo, dove siamo, a un altro? Venire a patti con chi sono io in relazione all'avarizia e farlo senza giudizio è una cosa, ma essere non-avari abbastanza da scoprire la mia avarizia sul tavolo davanti agli altri rende la pratica anche più profonda. È qui che il lavoro nel nostro cerchio della pratica è davvero utile.
Cosa stiamo facendo mentre facciamo questo? Cosa sta accadendo? Il Maestro Sosan, l'autore della poesia che inizia La Grande Via non è difficile per coloro che non hanno preferenze, nella poesia dice anche qualcosa riguardo al lasciare che le cose "prendano il loro corso". È come se tutto volesse liberarsi, prendere il proprio corso, e noi, per la nostra paura, per la nostra avarizia, impedissimo che questo succeda. Ecco proprio riguardo a ciò un'altra poesia di Mary Oliver:
I kookaburra
In ogni cuore c'è un codardo e un procrastinatore.
In ogni cuore c'è un dio dei fiori che aspetta solo
di venir fuori dalla nuvola e alzare le ali.
I kookaburra, martin pescatori, schiacciati contro il bordo della gabbia, mi chiesero di aprire lo sportello.
Dopo anni, mi sveglio la notte e mi ricordo di come dissi loro, No, e me ne andai.
Avevano gli occhi bruni dei cani di buon cuore.
Non volevano niente di speciale, solo rincasare volando al loro fiume.
Ora suppongo che la grande oscurità li abbia avvolti.
Quanto a me, ancora non sono nemmeno un dio dei fiori più pallidi.
E nient'altro è cambiato.
Qualcuno getta le loro ossa bianche sul mucchio di letame.
Il sole scintilla sul chiavistello della gabbia.
Giaccio nel buio, il cuore che martella.
Aprendo la porta di quella gabbia, lasciando uscire qualsiasi cosa tratteniamo dentro di noi, permettiamo che le cose 'prendano il loro corso'. Allora non siamo avari di avarizia, furto, parlar male delle colpe altrui e tutti gli altri precetti. Lasciando volar via i kookaburra lasciamo che prendano il loro corso e si trasformino. Allora i precetti iniziano a manifestarsi naturalmente.
Terminerò con Dogen sulla sua illuminazione:
Per cinquantaquattro anni
Seguendo la via del cielo
Ora saltando oltre
Frantumando qualunque barriera.
Stupefacente!
Gettare ogni attaccamento
Finché si è vivi!
Tuffarsi nella gialla primavera!
Colza, primavera 2008
Questo è il precetto del non essere avari.